“Trecento euro per un paio di scarpe che di cuoio ne varranno 30? Ma siamo matti?!”
“Oltre cento euro per una maglietta di cotone solo perché c’è scritto sopra xxxx, scherzi?!”
“Sconto del 70% in saldo e ancora ci guadagna! Che ladro!”
“30 euro per una bottiglia al tavolo che al supermercato me ne costa 17? Ma chi pensano di prendere in giro?”
Oggi parliamo di prezzi, prezzi troppo alti, beni troppo cari.
E come si fanno i prezzi? Chi li decide?
Quante volte abbiamo sentito e magari pronunciato o condiviso farsi e ragionamenti come quelli sopra? Scagli la prima pietra che è del tutto esente.
Il fatto è che:
1) Ci piacerebbe essere al posto di chi vede una maglietta da 20 euro a 200, confessiamolo!
2) Si sta facendo del moralismo gratuito senza sapere come si forma un prezzo sul mercato
3) Il costo industriale non è il costo finale di un prodotto
E il corollario di solito è “Tutta colpa del marketing/della pubblicità!”
Mentre magari è merito del marketing…
Perché?
Perché –fatta eccezione per le truffe – il prodotto medio di consumo sottosta a delle condizioni che fanno del punto 3) sopracitato una questione importante.
Vediamo come.
IL COSTO INDUSTRIALE NON E' Il COSTO DI UN PRODOTTO
1) Al costo delle materie prime e delle lavorazioni si sommano altri costi, di distribuzione e commercializzazione, che sono importanti nella catena del valore.
Se una maglietta viene prodotta negli USA a un dato prezzo, ci devo aggiungere i costi per farla conoscere sul mercato (comunicazione e pubblicità + rete vendite), per farla importare nel mio paese (tasse + guadagno dell’importatore), per farla distribuire (guadagno del distributore e di chi si occupa della logistica e dei trasporti), per venderla (guadagno del negoziante, che deve pagare le commesse o, in caso di e-commerce, l’imballo e la spedizione e chi gli gestisce il sito ecc.).
I ricarichi devono essere tali da coprire naturalmente anche i costi generali (personale, acqua, luce gas, commercialista...) di tutti e da permettere saldi e svendite.
Il marketing contribuisce a differenziare le merci attribuendo valore, perfezionando la distribuzione, aiutando domanda e offerta a incrociarsi nel punto (prezzo) giusto e aumentando/migliorando la comunicazione.
2) È sbagliato comunque ragionare a partire dai costi per fare un prezzo.
Un prezzo si fa a partire dal posizionamento dell’oggetto/marca sul mercato ovvero da quanto il consumatore/compratore è disposto a spendere per quel prodotto o per un prodotto sostitutivo.
Se per quell’oggetto – poniamo che sia straordinariamente desiderabile per N motivi, siano moda, scarsità, plus vari – uno è disposto a spendere 500 euro (anche qualora il costo sia di euro 5,00), il suo valore sul mercato sarà di 500 euro.
Un comportamento di vendita contrario da parte dell’imprenditore sarebbe anti-economico, e teniamo conto che questi comunque ha la responsabilità della propria impresa e di tutte le famiglie che ne dipendono.
Ne consegue che:
a) Fare i conti in tasca agli altri non è né educato né così facile, a meno che non si conosca alla perfezione la struttura dei mercati di cui si sta parlando;
b) Il prezzo giusto è quello che si determina sul mercato fornendo informazioni trasparenti sulla qualità e pagando a ciascuno il dovuto (senza violare l’etica del lavoro ed esercitare pratiche che violino diritti dell’uomo e accordi internazionali);
c) È bello ciò che piace e ciò che piace si paga. Ci sono fenomeni di collezionismo, lusso, rarità o scarsità che esercitano un effetto inflattivo su prezzi di determinati beni in certi periodi.
Finché ciò si applica a beni voluttuari, poco male. La maglietta da 20 o da 200 euro è una scelta e mi pare ci sia poco da indignarsi a questo proposito, se non per il fatto che chi la cuce spesso riceve solo le briciole, specie in caso di delocalizzazione in Paesi poco sviluppati. Mi sembra ridicolo che uno si indigni per la maglietta firmata o il jeans firmato. Al mercato si possono comprare per 15 euro, no-logo.
Il guaio è quando crescono a dismisura i prezzi dei beni NON voluttuari ovvero quando salgono, magari a dismisura, i prezzi delle derrate alimentari a causa di carestie o accaparramenti nelle borse merci mondiali, con grave detrimento per le fasce meno abbienti a livello globale.
Questi argomenti però sono molto meno sentiti e destano molto meno scandalo perché ci toccano poco, apparentemente e per il momento.
Nessuno li mette in relazione, ad esempio, con le ondate migratorie e le guerre.
Bisognerebbe invece cominciare a fare attenzione a nessi causali diversi e più lontani; far caso al costo del riso e delle banane, piuttosto che di Prada e Nike; oppure smettere di indignarsi e stare contenti e grati del benessere in cui ci è toccato fortunatamente vivere.
Chiara Tonon
“Oltre cento euro per una maglietta di cotone solo perché c’è scritto sopra xxxx, scherzi?!”
“Sconto del 70% in saldo e ancora ci guadagna! Che ladro!”
“30 euro per una bottiglia al tavolo che al supermercato me ne costa 17? Ma chi pensano di prendere in giro?”
Oggi parliamo di prezzi, prezzi troppo alti, beni troppo cari.
E come si fanno i prezzi? Chi li decide?
Quante volte abbiamo sentito e magari pronunciato o condiviso farsi e ragionamenti come quelli sopra? Scagli la prima pietra che è del tutto esente.
Il fatto è che:
1) Ci piacerebbe essere al posto di chi vede una maglietta da 20 euro a 200, confessiamolo!
2) Si sta facendo del moralismo gratuito senza sapere come si forma un prezzo sul mercato
3) Il costo industriale non è il costo finale di un prodotto
E il corollario di solito è “Tutta colpa del marketing/della pubblicità!”
Mentre magari è merito del marketing…
Perché?
Perché –fatta eccezione per le truffe – il prodotto medio di consumo sottosta a delle condizioni che fanno del punto 3) sopracitato una questione importante.
Vediamo come.
IL COSTO INDUSTRIALE NON E' Il COSTO DI UN PRODOTTO
1) Al costo delle materie prime e delle lavorazioni si sommano altri costi, di distribuzione e commercializzazione, che sono importanti nella catena del valore.
Se una maglietta viene prodotta negli USA a un dato prezzo, ci devo aggiungere i costi per farla conoscere sul mercato (comunicazione e pubblicità + rete vendite), per farla importare nel mio paese (tasse + guadagno dell’importatore), per farla distribuire (guadagno del distributore e di chi si occupa della logistica e dei trasporti), per venderla (guadagno del negoziante, che deve pagare le commesse o, in caso di e-commerce, l’imballo e la spedizione e chi gli gestisce il sito ecc.).
I ricarichi devono essere tali da coprire naturalmente anche i costi generali (personale, acqua, luce gas, commercialista...) di tutti e da permettere saldi e svendite.
Il marketing contribuisce a differenziare le merci attribuendo valore, perfezionando la distribuzione, aiutando domanda e offerta a incrociarsi nel punto (prezzo) giusto e aumentando/migliorando la comunicazione.
2) È sbagliato comunque ragionare a partire dai costi per fare un prezzo.
Un prezzo si fa a partire dal posizionamento dell’oggetto/marca sul mercato ovvero da quanto il consumatore/compratore è disposto a spendere per quel prodotto o per un prodotto sostitutivo.
Se per quell’oggetto – poniamo che sia straordinariamente desiderabile per N motivi, siano moda, scarsità, plus vari – uno è disposto a spendere 500 euro (anche qualora il costo sia di euro 5,00), il suo valore sul mercato sarà di 500 euro.
Un comportamento di vendita contrario da parte dell’imprenditore sarebbe anti-economico, e teniamo conto che questi comunque ha la responsabilità della propria impresa e di tutte le famiglie che ne dipendono.
Ne consegue che:
a) Fare i conti in tasca agli altri non è né educato né così facile, a meno che non si conosca alla perfezione la struttura dei mercati di cui si sta parlando;
b) Il prezzo giusto è quello che si determina sul mercato fornendo informazioni trasparenti sulla qualità e pagando a ciascuno il dovuto (senza violare l’etica del lavoro ed esercitare pratiche che violino diritti dell’uomo e accordi internazionali);
c) È bello ciò che piace e ciò che piace si paga. Ci sono fenomeni di collezionismo, lusso, rarità o scarsità che esercitano un effetto inflattivo su prezzi di determinati beni in certi periodi.
Finché ciò si applica a beni voluttuari, poco male. La maglietta da 20 o da 200 euro è una scelta e mi pare ci sia poco da indignarsi a questo proposito, se non per il fatto che chi la cuce spesso riceve solo le briciole, specie in caso di delocalizzazione in Paesi poco sviluppati. Mi sembra ridicolo che uno si indigni per la maglietta firmata o il jeans firmato. Al mercato si possono comprare per 15 euro, no-logo.
Il guaio è quando crescono a dismisura i prezzi dei beni NON voluttuari ovvero quando salgono, magari a dismisura, i prezzi delle derrate alimentari a causa di carestie o accaparramenti nelle borse merci mondiali, con grave detrimento per le fasce meno abbienti a livello globale.
Questi argomenti però sono molto meno sentiti e destano molto meno scandalo perché ci toccano poco, apparentemente e per il momento.
Nessuno li mette in relazione, ad esempio, con le ondate migratorie e le guerre.
Bisognerebbe invece cominciare a fare attenzione a nessi causali diversi e più lontani; far caso al costo del riso e delle banane, piuttosto che di Prada e Nike; oppure smettere di indignarsi e stare contenti e grati del benessere in cui ci è toccato fortunatamente vivere.
Chiara Tonon
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